La MLB Maria Livia Brunelli home gallery propone un progetto curatoriale sul tema della fragilità con sei fotografi. A esporre due tra i maggiori artisti contemporanei italiani che usano la fotografia come mezzo d’espressione privilegiato, Silvia Camporesi e Mustafa Sabbagh, entrambi quest’anno in mostra al MAXXI di Roma (Extraordinary Visions. Italia): Sabbagh ha indagato con delicatezza e poesia la fragilità dell'essere umano, a partire da quell’età più indifesa che è l’infanzia, la Camporesi ha svelato la fragilità dei luoghi abbandonati, luoghi pieni di memorie che per diversi motivi ora non sono più abitati. Il fotografo e performer Stefano Scheda ha invece incentrato la sua ricerca sul tema della gemma, fragile forma vegetale dalla forte simbologia, che nasce anche dalle crepe del terremoto come segno di speranza, mentre il siriano Omar Imam ha esplorato, in maniera poetica e surreale, i sentimenti più profondi e struggenti dei rifugiati siriani che vivono nei campi in Libano. La giovanissima Anna Di Prospero espone un lavoro sul delicato e mutevole rapporto madre-figlia, presentato quest’anno alla Triennale di Milano, e infine Giovanna Ricotta è presente con un dittico fotografico che indaga due diversi aspetti della fragilità femminile.
Silvia Camporesi ha esplorato nell’arco di un anno e mezzo tutte le regioni italiane alla ricerca di paesi ed edifici abbandonati. “Atlas Italiae” è il risultato di questa raccolta di immagini, una mappa ideale dell’Italia che sta svanendo, un atlante della dissolvenza. Si scoprono così luoghi nascosti e spesso mai svelati, magici nelle loro smagliature scrostate, pervasi da energie impalpabili. La serie fotografica si presenta come una collezione poetica di luoghi (borghi disabitati, architetture fatiscenti, archeologie industriali) fondata sulla ricerca di frammenti di memoria. Questa mappatura non ha intenti di denuncia, ma riprende idealmente lo spirito del Grand Tour, della ricerca di vestigia passate, ancora portatrici di tracce di vite vissute, con cui confrontarsi per riflettere sul presente al fine di immaginare il futuro. Una volta gli artisti andavano alla scoperta delle rovine romane, oggi Silvia Camporesi ricerca le rovine contemporanee. Per rivivere quello spirito e per ridare vita ai luoghi, le immagini sono state stampate in bianco e nero e colorate a mano dall’artista. In occasione di ArteFiera 2017, gran parte delle foto che compongono questa mappatura, confluita in un raffinato libro d’artista, verranno esposte in un’unica grandiosa installazione.
Mustafa Sabbagh, nella recentissima serie “Candido”, ci presenta bambini con le mani macchiate di colore (sangue o tempera, non è chiaro), ma la loro espressione è innocente, i loro sono giochi candidi, perché i bambini sono puri, incontaminati, e gioiscono delle loro impronte rosse. La loro fragilità li scagiona da ogni eventuale colpa. Sabbagh, italo-palestinese, già assistente di Richard Avedon e docente alla Saint Martins di Londra, dopo essere divenuto noto a livello internazionale per le sue foto di moda, ha deciso di abbandonare il mondo patinato delle riviste per svelare tutto ciò che sta dietro una perfezione apparente, mettendo in luce fragilità e imperfezioni: così le sue spettacolari nature morte fiamminghe rivelano impercettibili sfioriture, mentre gli esseri umani da lui ritratti sono mascherati per rivelarne la loro più intima natura, o denudati nella loro essenza più autentica, fino a svelarne umanissimi difetti. In occasione di ArteFiera Mustafa Sabbagh propone due grandi fotografie tratte dal progetto “Candido”, il suo lavoro più recente, quest’anno in esposizione in una grande antologica a lui dedicata allo spazio ZAC di Palermo (lo stesso spazio in cui ha esposto Herman Nitsch e che prossimamente ospiterà Manifesta 2018), cui è seguita la mostra al MAXXI di Roma.
Stefano Scheda propone le immagini di un’installazione in cui alcuni elementi vegetali come gemme e steli di fiori fuoriescono da mobili e crepe nei muri. I due lavori della serie “Gemmazione” (2012) e la serie “Nelumbi” (2016) si sviluppano senza soluzione di continuità dilatando sottili rimandi fra nascita e morte, fra natura e cultura, dove la fragilità viene interpretata come sopravvivenza. Il legno dei mobili recupera la vitalità della propria memoria, come la crepa sul muro, nata dal terremoto del 2012, diviene occasione insolita di riappropriazione della natura che vi si insinua a nuova vita. L’ultimo lavoro riprende questo tema ritraendo il fiore di loto come una “giapponeseria” vista da una lastra di ghiaccio, in una sospensione spettrale senza tempo, ma vitale. In questo modo natura e cultura si scambiano i ruoli delle loro identità e si riappropriano di un flusso visibile di continuità nel doppio sguardo dell’osservatore. L’artista, che vive a Bologna, dove insegna “Strategia dell’Invenzione” all'Accademia di Belle Arti, ha partecipato alla Biennale di Venezia 2005 e ha esposto alla Annina Nosei Gallery a New York, alla GAM di Bologna, al MART di Rovereto.
Omar Imam è un fotografo e regista siriano basato ad Amsterdam. Nei suoi progetti fotografici utilizza l’ironia e un approccio concettuale come risposta alla violenza che caratterizza la situazione della Siria. Dopo aver lasciato Damasco nel 2012, ha iniziato anche a realizzare cortometraggi, producendo film e reportage. Il suo lavoro è stato presentato a livello internazionale al Photoville Festival di Brooklyn di New York (2015), ed è stato sostenuto dal Fondo Magnum e dal Fondo Claus Prince (2014). Le sue foto e i suoi video riportano la testimonianza delle vite segnate dal conflitto, senza indulgere in facili sensazionalismi, ma presentando toccanti storie minime ed intime della vita dei rifugiati. "Live, Love, Refugees", pubblicato nel 2016 dal New York Times, ribalta infatti la normale rappresentazione dei rifugiati siriani, sostituendo ai numeri, ai report, alle statistiche, le loro paure e i loro sogni più profondi. Nei campi profughi in Libano Omar Imam coinvolge i rifugiati in un processo di catarsi e gli chiede di ricreare i loro sogni: sogni di fuga, sogni di amore o di odio. Il risultato sono immagini simboliche e spesso surreali, a volte felliniane, che evocano i più profondi e oscuri mondi interiori di persone che hanno perso le loro radici e che quotidianamente lottano per la sopravvivenza. “Le persone che ho incontrato vivono vite da incubo, ma in loro ho sempre colto il desiderio e la forza di continuare a vivere come esseri umani”, racconta l’artista.
Anna Di Prospero è una giovanissima fotografa romana che vive tra l'Italia e Parigi. L'intensa opera che la ritrae con la madre, attualmente in mostra alla Triennale di Milano, appartiene alla serie Self-portrait with my family, nata dal desiderio dell’artista di sviluppare una ricerca sui suoi legami più intimi. In ogni immagine ha analizzato il rapporto familiare lasciando che si trasformasse in fonte ispiratrice. La parte più importante di questo lavoro è stata per lei il coinvolgimento ottenuto durante gli scatti, grazie al quale ha scoperto aspetti sconosciuti dei suoi familiari. Gli scatti di questa promettente fotografa hanno incantato l’Italia e l’America, dove ha approfondito i suoi studi presso la School of Visual Arts di New York. Ha vinto due prestigiosi premi, il People Photographer of the Year all’International Photography Awards e Discovery of the Year al Lucie Awards e si è classificata al secondo posto nella categoria Ritratto al Sony World Photography Award 2014.
Giovanna Ricotta, artista e performer, presenta un dittico fotografico che indaga due diversi aspetti della femminilità. Le due foto sono il risultato di due performance. Nella prima, realizzata al MAMBo di Bologna, l'artista nasconde la sua fragilità sotto le spoglie di una geisha-samurai, metafora dell’artista al momento del concepimento dell’opera, dall’impalpabile attimo dell’ispirazione, alla concentrazione su se stesso seguita dal libero abbandono alle possibili declinazioni di un’idea prima di determinare l’azione finale e risolutiva. L’ambigua alternanza tra il bianco del kimono e del foglio da campire e il nero del casco e della katana-pennello con cui la protagonista fende lo spazio che la circonda si risolve nella scrittura finale nero su bianco della frase che dà il titolo alla performance (Fai la cosa giusta). La seconda performance invece, realizzata alla Fabbrica Borroni a Milano, ritrae l'artista come una cortigiana punk-rococò che si esibisce in manierati inchini e passi di danza dopo aver imbellettato se stessa e la propria immagine riflessa nello specchio con un negligente strato di cipria e nuvole di essenza profumata. Assimilando la cerimoniosità settecentesca alle formalità di facciata che spesso governano le relazioni umane e in particolare le regole del sistema dell’arte, Giovanna Ricotta, in Toilette, suggerisce allo spettatore di chiedersi cosa ci sia in realtà dietro le apparenze delle cose.